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Il fundraising per le comunità patrimoniali della Convenzione di Faro

da | 16 Mag 2023 | Fundraising: vorrei e non vorrei | 0 commenti

Cresce in Italia un movimento carsico, unmapped, fatto di cittadini attivi ma anche amministratori locali – spesso in partnership – e ricercatori nel campo del patrimonio culturale.

Un movimento non formalizzato, una sorta di piazza dove si incontrano, forse inconsapevolmente, realtà che vengono da ambiti di impegno differenti: la tutela, la conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale, il suo riuso a scopi sociali, le esperienze di amministrazione condivisa, ma anche il rafforzamento della coesione e integrazione sociale, le nuove forme di turismo e di fruizione della cultura.

Uno degli aspetti che almeno in parte rappresenta un denominatore comune di queste realtà è la cura dei beni comuni che, in Italia, sono soprattutto caratterizzati da valore culturale sia materiale sia immateriale.

Da questo punto di vista appare molto interessante l’indagine che sta conducendo la Fondazione Scuola dei Beni e delle Attività Culturali sulla partecipazione civica alla gestione del patrimonio culturale e che ha mappato ad oggi più di 260 realtà attive e impegnate concretamente a tutelare e valorizzare più di 370 beni culturali.

Una parte molto importante e rappresentativa di questo “mondo” si è riunita a Roma il 5 maggio scorso anche per parlare di fundraising. Si tratta dell’incontro annuale della Rete Italiana Faro, composta da “comunità patrimoniali” nate a seguito dell’impulso dato dalla Convenzione di Faro promossa dal Consiglio di Europa e che nei suoi principi generali tocca tutte le diverse anime di questo movimento.

Anche le comunità patrimoniali oggi si pongono la grande sfida della sostenibilità economica delle loro attività e quindi del patrimonio culturale. Lo hanno fatto ospitando nella riunione del 5 maggio uno spazio di riflessione sul fundraising nel quale sono stato invitato ad intervenire.

La questione del fundraising per questo movimento è lungi dall’essere una questione di natura tecnica, ma ha piuttosto una dimensione profondamente strategica che riguarda – per queste realtà informali o comunque non giuridicamente definite – la definizione e la sperimentazione di modelli che rafforzino la loro identità:

  • la governance, sia in senso formale sia in senso sostanziale, ossia le forme giuridiche che permettano di agire nel fundraising (come ad esempio l’essere un ente di terzo settore) e al contempo di condividere con tutti coloro che gestiscono queste comunità la responsabilità sul tema della sostenibilità economica. Spesso infatti le partnership pubblico/privato legate alla gestione dei beni comuni non prevedono un’assunzione paritetica di responsabilità sulla necessità di reperire fondi, “scaricando” questo impegno solo sulle realtà sociali (come avviene in genere nelle concessioni e negli affidamenti).
  • i processi partecipativi, nel senso che l’impegno sui beni comuni non può che prevedere un ruolo attivo della comunità (è per questo che la Convenzione di Faro stabilisce, quale principio fondante, proprio la partecipazione al patrimonio culturale). Guidare e gestire i processi partecipativi è una pre-condizione del fundraising in quanto deve stabilire con tutta la comunità un rapporto di corresponsabilità nella gestione del bene comune invece che vedere nella comunità solo il mero fruitore di questi.
  • le politiche di empowerment per il fundraising. Il fundraising non può basarsi solo sula buona volontà delle persone. Occorre anche operare per dare strumenti di azione, favorire lo sviluppo di professionalità e creare un ambiente di interlocutori favorevoli.

Tutto questo deve essere oggetto anche di un percorso di “ricerca-azione” condiviso con tutti gli attori pubblici e privati, in quanto il ruolo di questo movimento appare ogni giorno di più come indispensabile e necessario per mettere a valore sociale, culturale e anche economico il nostro patrimonio, pena il suo abbandono (al quale da anni assistiamo spesso impotenti). Occorre fare ricerca posto che questo movimento è nuovo, così come nuovo sarà il suo fundraising e non vi sono modelli precostituiti da applicare. Ma una ricerca che veda le comunità patrimoniali non solo come oggetto da conoscere, ma anche come soggetto che acquisisce dalla realtà del suo agire conoscenze per produrre cambiamento.

Le linee di azione sono semplici quanto indispensabili:

  • formazione del personale;
  • accompagnamento allo start up;
  • dare vita a politiche (pubbliche e sociali) che permettano di investire soldi, risorse umane e organizzative sul fundraising;
  • realizzazione di campagne di sensibilizzazione e comunicazione che preparino il terreno per la raccolta fondi;
  • favorire una azione di rete sul fundraisjng e non solo l’azione dei singoli soggetti, per fare “massa critica”.

Penso che molte di queste linee di azione possano essere coerenti con le politiche culturali europee in molti dei suoi Programmi. Questa potrebbe essere un’opportunità per un reale start up del fundraising.

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